2016 PERCEZIONE E AZIONE
OGGETTI, CORPI E AZIONI: PERCEPIRE PER AGIRE
Secondo la prospettiva dell’embodied cognition (letteralmente cognizione incarnata), le intenzioni e la capacità di agire delle persone possono influenzare la loro percezione del mondo. Come scriveva lo psicologo statunitense James J Gibson nel 1979: “Noi dobbiamo percepire per poterci muovere, e dobbiamo muoverci per percepire.
In altre parole, la nostra conoscenza del mondo è influenzata dalle nostre esperienze precedenti, che a loro volta sono plasmate dall’ambiente che ci circonda in una relazione biunivoca. Non solo, la nostra conoscenza è mediata dalle nostre esperienze corporee.
Durante due giornate di incontri, studenti e ricercatori del Dipartimento di Psicologia dell’Università Milano-Bicocca hanno incontrato i giovani artisti di Brera per descrivere tre ambiti in cui la prospettiva dell’embodied cognition si è dimostrata particolarmente adatta a descrivere il funzionamento della mente umana, ovvero gli ambiti della percezione:
– dello spazio e degli oggetti
– del nostro corpo
– delle azioni altrui
Inoltre, si è parlato di come persino l’atto di immaginare di compiere un movimento mentalmente non sia indipendente dalle nostre rappresentazioni corporee.
Infine, alcuni docenti di Brera hanno descritto come l’arte del ‘900 si sia occupata del tema della percezione del movimento, ispirandosi a correnti di pensiero nate nel campo della psicologia.
La mostra Percezione e Azione 2016 nasce dai frutti di questo incontro:le opere dei giovani artisti di Brera puntano infatti a riprendere i temi discussi e a riproporli attraverso gli strumenti delle arti visive.
Corpo, mente e ambiente: una relazione inscindibile.
La figura riprende i due punti focali della concezione della mente secondo l’embodied cognition: il fatto che la cognizione dipende dalle esperienza derivanti dal fatto di avere un dato corpo con varie capacità sensori-motorie, e che queste stesse capacità sensori-motorie sono esse stesse da inserire all’interno di un più ampio contesto biologico, psicologico e sociale
(modificato da Varela et al., 1991).
Seminario 1
Corpo, mente e ambiente: storia di una relazione inscindibile
Gianluca Saetta
Il rapporto tra mente, corpo e ambiente è da sempre oggetto dibattito, sviluppatosi in diverse discipline che spaziano dalla filosofia, alla psicologia, alle attuali neuroscienze cognitive.
Corpo e mente: due entità separate?
In ambito filosofico, già nel 1673 Cartesio supporta una visione dualista di tale rapporto distinguendo due aspetti ontologicamente separati: la rex cogitans (attività psichica) e la rex extensa (corpo fisico e mondo esterno). In linea con tale concettualizzazione, durante la seconda metà del ‘900 la scienza cognitiva computazionalista͟ propone una stretta identificazione tra sistema mente/cervello e il computer che diviene la reificazione del dualismo cartesiano. Si propone uno schema descrittivo in cui l’uomo è paragonato ad un elaboratore di informazioni: la mente è il software e il corpo (o il cervello) l’hardware.
Mente e cervello nel ‘900. La mente umana per gli psicologi computazionalisti del ‘900 è paragonata a un elaboratore di informazioni che riceve input dal mondo esterno, li elabora, e fornisce delle risposte solo dopo tale elaborazione.
Cognizione incarnata
Tuttavia negli ultimi venti anni è emerso un approccio denominato Embodied Cognition che ha posto l’accento sulla funzione del corpo e delle esperienze corporee nel plasmare la cognizione, mettendo in luce la causalità dialogica e ricorsiva tra azione, percezione e pensiero. L’individuo manifesta il proprio comportamento sulla base delle proprie capacità sensori-motorie, delle informazioni ambientali e del ricordo di esperienze percettive simili avute in passato.
Un esempio: l’affordance degli oggetti
Un esempio dell’applicazione di questa concezione della mente umana sono gli studi sull’affordance degli oggetti, un concetto proposto dallo psicologo americano Gibson. Le affordance sono qualità fisiche presenti nell’ambiente che suggeriscono al soggetto che le osserva quali sono gli schemi motori appropriati da attivare per il loro utilizzo. Sono letteralmente degli inviti all’azione che si riferiscono alla relazione tra l’oggetto e il soggetto.
Le evidenze prodotte in ambito neuro-scientifico sembrano confermare la teoria di Gibson. Esiste una classe di neuroni detti neuroni canonici che si attivano sia alla vista che all’utilizzo di un oggetto, suggerendo che nel nostro cervello siano presenti dei meccanismi che associano automaticamente la percezione di un oggetto all’atto motorio potenziale verso di esso. In altre parole, azione e percezione sono processi intrinsecamente legati.
I moderni robot sono programmati sfruttando i principi descritti dalla prospettiva dell͛embodied cognition.
Seminario 2
Lo spazio, gli oggetti e le nostre possibilità di azione
Elena Mussini
La prospettiva dell’embodied cognition sostiene che le intenzioni e la capacità di agire delle persone possano influenzare la loro percezione della struttura spaziale. Diversi esperimenti dimostrano, infatti, come la percezione sia una ricostruzione del mondo che tiene conto non solo delle informazioni sensoriali, ma anche della previsione dei costi (in termini di energia, fatica o dolore) associati all’azione che si intende eseguire. Per esempio, la percezione della distanza è modulata dalla desiderabilità di un oggetto, per cui gli oggetti più desiderabili sono visti come fisicamente più vicini rispetto a quelli meno desiderabili. Anche l’età e lo stato di salute possono influenzare la percezione della distanza: gli anziani e le persone che presentano dolore cronico tendono a stimare un oggetto come più distante rispetto ai giovani e a chi non presenta dolore cronico.
Affaticamento e percezione della distanza
Uno studio in collaborazione tra l’Università Bicocca di Milano e l’Università G. d’Annunzio di Chieti-Pescara ha indagato gli effetti dell’affaticamento sulla percezione della distanza ed in particolare sulla raggiungibilità percepita. Si è ipotizzato che affaticare il braccio destro aumenti la distanza percepita di un oggetto con il manico orientato verso destra, e che l’opposto si verifichi in caso di affaticamento del braccio sinistro. In effetti, rispetto ad una condizione di pre-affaticamento, l’affaticamento del braccio destro induceva i partecipanti a percepire come più lontano un martello con il manico orientato sia a destra che a sinistra, mentre l’affaticamento del braccio sinistro li induceva a percepire come più lontano soltanto il martello con il manico orientato a sinistra. Questi risultati confermano che, sebbene assumiamo di vedere l’ambiente circostante per quello che è, le nostre percezioni non sono oggettive ma possono dipendere dai nostri stati sia fisici che emotivi, e possono essere influenzate da un’adeguata manipolazione sperimentale.
L’affaticamento muscolare delle braccia induce a stimare come più lontani gli oggetti afferrabili. Questo è un esempio di come la fatica influenzi la percezione spaziale.
Seminario 3
Il Corpo Plastico
Daniele Romano, PhD
Nella quotidianità il fatto che il nostro corpo ci appartenga non è un fatto che mettiamo in discussione. Tuttavia esistono rare condizioni patologiche in cui tale assunto è violato. Ad esempio in seguito a un ictus cerebrale è possibile acquisire la somatoparafrenia: la sensazione che un proprio arto appartenga a un’altra persona.
Il senso di bodyownership
Le osservazioni di pazienti con simili disturbi hanno spinto diversi ricercatori a domandarsi come la mente formi e mantenga la rappresentazione che il nostro corpo ci appartenga (dall’inglese body ownership). A tal fine sono state sviluppate manipolazioni sperimentali, da utilizzare anche in persone sane, che inducano la sensazione che una mano finta sia parte del proprio corpo. Il paradigma più noto in questo settore è l’illusione della mano di gomma (riportata in figura). In questo paradigma vedere una mano di gomma che viene toccata in maniera uguale alla propria mano, nascosta alla vista, induce la sensazione che la mano finta sia parte del proprio corpo. A questa sensazione di appartenenza corporea si accompagna tipicamente un’errata localizzazione della propria mano nello spazio che, a seguito dell’illusione, viene percepita in una posizione più prossima a quella finta. Questo suggerisce che la mano finta venga percepita come una parte del proprio corpo.
L’illusione della mano di gomma.
Nell’illusione della mano di gomma (traduzione dall’inglese Rubber Hand Illusion) vedere una mano di gomma (al centro nell’immagine) che viene toccata in maniera uguale alla propria mano, nascosta alla vista (parte destra della figura), induce la sensazione che la mano finta sia parte del proprio corpo. Questa illusione serve a studiare come il senso di appartenenza di una parte del corpo dipenda da esperienze multi-sensoriali attuali concorrenti e le conoscenze pregresse rispetto al nostro corpo, integrandosi in un continuo processo di aggiornamento
L’incorporazione di utensili
Oltre a finte parti del corpo, anche oggetti non corporei, ma che siamo abili ad utilizzare, possono essere elaborati come estensione del proprio corpo. L’uso di oggetti come pinze, bastoni, o utensili induce un processo di incorporazione in parte diverso da quello descritto per la mano di gomma. Infatti l’utensile non viene mai percepito come parte del proprio corpo, tuttavia il suo utilizzo modifica il modo in cui si programmano le azioni, e il modo in cui gli stimoli vengono elaborati nello spazio che prima non era raggiungibile e ora lo è mediante l’attrezzo. Questi effetti suggeriscono che alcuni meccanismi sensomotori vengono modificati dall’uso dell’attrezzo, come se lo strumento fosse una parte del proprio corpo. Tali modifiche tuttavia non sono accompagnate dalla sensazione che lo strumento sia una parte del proprio corpo, come avviene invece nell’illusione della mano di gomma.
Ad oggi le protesi sono un argomento di ricerca rilevante. Esse sono una particolare classe di oggetti che è sia un utensile, sia una parte del corpo. Studiare come sia possibile favorire l’integrazione di questi utensili speciali nella rappresentazione corporea è particolarmente interessante per sviluppare protesi più funzionali e migliorare le condizioni di vita delle persone che hanno la necessità di utilizzarle.
Seminario 4
Noi e gli altri: azioni e interazioni
Lucia Maria Sacheli, PhD
Le ricerche nel campo dell’osservazione delle azioni altrui cercano di rispondere a domande come:
– Come facciamo a capire le intenzioni degli altri semplicemente osservandoli? Ad esempio, come facciamo a capire la direzione in cui andrà un altro sciatore ed evitare così uno scontro mentre scivoliamo veloci su una pista da sci;
– Come facciamo a imparare da loro? Ad esempio, come facciamo a imparare a ballare semplicemente osservando l’insegnante che ci mostra i movimenti corretti;
– Come facciamo ad interagire in modo efficace? Ad esempio, come fa una coppia di pattinatori a coordinare con estrema precisione i propri movimenti mentre volteggiano sul ghiaccio.
Meccanismi simulativi
Queste domande condividono una risposta comune: noi siamo in grado di fare tutto ciò grazie alla presenza di meccanismi simulativi che ci permettono di rievocare, attraverso il nostro sistema motorio, un’azione osservata, come se fossimo noi a compierla. Grazie a questi meccanismi possiamo comprendere qual è l’obiettivo delle azioni degli altri e adattarci di conseguenza, perché esse si riflettono nel nostro sistema motorio come in uno specchio (da qui il nome evocativo di mirror neurons attribuito alla classe di neuroni responsabile di questi processi). Analogamente, possiamo imparare un’azione semplicemente osservandola in un altro, come nell’esempio del maestro di ballo, proprio perché l’osservazione evoca automaticamente la rappresentazione motoria corrispondente a quel movimento: per imparare, ci basta metterla in atto, sfruttando il cosiddetto apprendimento per imitazione. Con un solo vincolo: solo se i movimenti di base necessari a compiere una determinata azione fanno già parte del nostro repertorio motorio.
Il ruolo dell’esperienza
Il fatto che esistano i meccanismi simulativi ha infatti una conseguenza importante: la nostra percezione delle azioni altrui è modulata dall’esperienza. Per esempio è stato dimostrato che in realtà siamo più bravi a simulare le azioni che sappiamo già fare, mentre non possiamo simulare azioni per noi impossibili, come ad esempio i movimenti di un contorsionista. Questi fenomeni sono stati indagati nel mondo dello sport: esperti motori come dei giocatori di basket professionisti sono molto più bravi a prevedere l’esito di un’azione legata al basket, come ad esempio un tiro a canestro, rispetto a persone che non hanno mai praticato questo sport, persino nel caso in cui questi ultimi siano estremamente abituati ad osservare l’azione in questione, come nel caso di commentatori sportivi. Ciò dimostra che l’esperienza motoria ha un forte impatto sulle nostre percezioni delle azioni altrui.
Simulazione a che scopo? L’interazione sociale.
Ma qual è lo scopo di tutto questo? Perché il nostro cervello sembra programmato per essere estremamente abile a leggere i movimenti degli altri sfruttando il nostro sistema motorio? Una possibile risposta potrebbe essere: simulare le azioni altrui ci serve per interagire. Infatti, essere in grado di prevedere velocemente lo scopo delle azioni degli altri e di associare molto rapidamente una risposta motoria a queste previsioni permette di coordinarci con gli altri in modo efficace. Studi recenti hanno ad esempio mostrato che alcune azioni tipicamente interattive, come porgere la mano, evocano nel sistema motorio la simulazione di un’azione che è però complementare a quella osservata. L’ipotesi finora più accreditata, ma ad oggi ancora da dimostrare, vorrebbe infatti che la simulazione sia alla base di una capacità tipicamente umana: muoversi in modo appropriato in un mondo fatto da altri individui che agiscono, nel mondo sociale.
Dall’imitazione all’interazione.
Gli studi nell’ambito delle neuroscienze cognitive e della fisiologia hanno dimostrato che osservare un’azione attiva automaticamente la simulazione delle rappresentazioni motorie di quell’azione nel soggetto che osserva. La sfida odierna è dimostrare come questi meccanismi entrino in gioco nei contesti interattivi, quando all’azione dell’altro devo reagire con una risposta complementare.